26/08/08

Particelle Instabili: L'eremita



L’eremita ha la più dura delle mazze: pesta e ripesta mandragola e corniolo, trita il narvalo sui cocci d’ossidiana, sfibra il tiglio. Doma l’impeto sottile ma imperioso che si leva a notte fonda dai più oscuri e muscosi penetrali. Dove la roccia si fende, languidamente scostata dall’erompere del seme che proietta senza tema i suoi pazienti virgulti, lì si china l’eremita per vedere da vicino cosa accade quando il lento incatenarsi delle forze ctonie vibra, per la prima volta, solleticato da un anelito che a volte vorrebbe chiamare incertezza, talatra preferirebbe di designare quale desiderio (se solo tale parola trovasse luogo nel frastagliato lessico dei sassi), più spesso avrebbe forma di cicloide immensamente fissata su una lastra di basalto. L’eremita è un segaiolo. Conosce il lamento segreto di borragini e trifogli. Essendogli ignota la fretta, muta in polpa le scorze più tenaci. Di spora in spora, per spirali di soffioni, egli spande il suo sentire per i rami che s’inarcano gravati dalle pigne, per i fili sottili dei crescioni, sulle sbobbe schiumose che debordano silenti dalla carogna di un cinghiale ferito dal rotolare di un pietrone, trascinatosi che sputava sangue e merda per tre settimane, alla fine accosciato lì tra le foglie di castagno e confuso col paesaggio. L’eremita non rinuncia mai a nulla e dispensa preziosi consigli a chi s’asside, soppesando con libra precisa il trascorrere del tempo, sezionando senza enfasi il carapace generoso dei più antichi tra i cheliridi, dedicandosi con muta devozione alla geologica pratica della coobazione, peraltro non necessariamente intendendola. L’eremita, quando vede delinerasi l’arcobaleno tra i fili del ragno all’aurora, lo chiama amico, e ne viene ricambiato. L’eremita ha la più fina delle code: punge la volpe come il tafano, e tutto cristallizza col suo veleno nell’atto stesso in cui lo polverizza e soffia via, distrattamente, a un nuovo stato. Se fosse fuoco, tutto quanto lambirebbe senza cenno di dolore; se fosse acqua, marcirebbe nelle ossa di una quercia millenaria per svaporare finalmente quando la scorza si squaglia, e mostra le nodose involuzioni. Il suo saio possiede l’attrito della pomice; col suo semplice passare, lui preleva dalla selva gli invisibili campioni di un’enciclopedia naturale che si va a depositare, diaristicamente, tra le leve e gli snodi di un corpo comunque obsoleto. L’eremita conosce la lingua segreta delle ghiande; sa leggere i ritmi con cui maliziose le felci socchiudono foglie al grigio brumoso di selva nell’alba d’agosto; sa dire il sesso dei funghi e vede il messaggio di un burattinaio infinitamente lontano lasciato nelle pieghe in cui s’avvolve il muschio per le crepe dell’olmo piagato dai lampi. Non c’è borborigmo di orso in letargo che l’eremita non abbia già sentito, e sentirà, e riconosca per fraterno. Avverte il proprio nome nel balzare strascinante dell’anfibio. Quando la larva lascia l’alveo glutinoso della cova, lui è lì. Lo reincontrerà davanti alle mandibole che stringono. I massi si piegano ad accoglierlo dove alfine si siede a contemplare, oppure li aveva già scavati col pervicace strofinare delle chiappe. Nelle volute del suo infaticabile pestello la materia, semplificata, si acquieta un istante, e tira il fiato. Sotto il volto l’eremita vede il teschio; sotto il teschio, l’atomo.



21/08/08

Particelle Instabili: Crudo


prima
rimbaud rimbaud, pensavamo
rimbaud
noi al caldo e i piedi stesi sotto al banco
credevamo i muri essere sogni
e i versi
ali
e sregolare ci pareva, sonnecchiando, quasi uguale a prevalere
come rimbaud-suole-di-vento c'è nessuno, dicevamo
e quando ho finito le scuole
e pure c'ho messo che più ne potevo
sono andato in una fabbrica di gomme
bene bene
tutto il giorno dietro a un nastro
e una squadra di arabi
dove in arabo passavano
barzellette
su di me
butta gomme nella bocca di una bestia che si chiama talcatrice
un dio tossico di sbuffi
e presse e mazzuoli
sferraglianti
e una doccia di roetghen
e un tributo di dita e di mani appena sgarri
e il nastro qualche volta ti mandava un po' più gomme
e qualche volta meno
sempre troppe
così devi prender la vita, mi diceva il collega
con accento
evemeristico
e persi i capelli
e persi il cazzo
e persi rimbaud
che duro, là dentro, non credere ai muri
e un tizio che era lì da quarant'anni e mi somiglia
diceva
se vuoi andare avanti hai solo un modo
non pensare
e così fu che un bel giorno
imparai
a non pensare
mi dissi toh guarda,
non penso
e stavo bene
e quando un compagno di scuola crepò
che era sui venti
come
rimbaud
che morto a venti scappò in africa perché non si sapesse
quando seppi che il mio amico era morto
sregolato
nei cessi del treno
una sciabola al braccio
e una in fronte
ecco, non ci vidi proprio niente di poetico
di nobile o maudit
proprio niente;
è al bar, che me lo fecero sapere, nel mentre di una birra
e manco smisi il sorso
e la mattina dopo
ero in fabbrica, ovviamente,
come sempre
come sempre,
e c'erano più gomme che mai